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1 Febbraio 2016
Cos'è un avvocato?
Pubblicato sul N. 0 del mese di febbraio del 2016 di “Il Foro Trentino”
L’AVVOCATO, LO SGUARDO DI MEDUSA E LO SCUDO DELLA LEGGE
“Ciò che diede ad Ambrosoli la forza di opporsi ad un uomo potentissimo e senza scrupoli come Sindona fu non l’interesse, ma il senso del dovere.”
Maurizio Viroli, “L’Italia dei doveri”
Quante volte al giorno ci capita di chiedercelo, soprattutto quando le delusioni e le disillusioni ci portano vicini a perdere quella che altri sacerdoti chiamano la vocazione? Cos’è un avvocato? Qual è l’ubi consistam, l’essenza profonda della sua funzione?
Le definizioni normative, a ben vedere, non ci aiutano. L’articolo 2 della Legge 247 del 2012, infatti, non è risolutivo per la risposta al quesito. Tale norma descrive sinteticamente la funzione ed analiticamente le attività, avvicinandoci forse al punto, senza mai attingerlo: vede il cavallo ma non la cavallinità.
E’ senz’altro vero che il secondo comma della norma ordinamentale appena citata, proprio con la descrizione della funzione, fornisce almeno un punto di partenza, uno spunto, nella ricerca dell’essenza della professione: “L’avvocato ha la funzione di garantire al cittadino l’effettività della tutela dei diritti”. Ora conosciamo, quantomeno, il soggetto a profitto del quale noi dobbiamo la nostra stessa esistenza - il cittadino - ma ancora non sappiamo, a ben vedere, da chi o da che cosa il cittadino medesimo debba essere difeso. Che sia il cittadino, e non la giustizia, o peggio, una ideale Giustizia con la “G” maiuscola, il fine ultimo della nostra professione, non è un dato scontato, ma il portato di secoli d’esperienza. Non per nulla un grande teorico del diritto ed un grande avvocato – Alan Dershowitz - ha ritenuto di indicare nell’esperienza del male il fondamento ultimo dei diritti umani. Certo, il cittadino, l’assistito, è affiancato dal fine di giustizia nella nuova formula del nostro impegno solenne, consacrata dall’art.8 della legge professionale. Ma, appunto, anche in questa formula rimane in primo piano l’assistito, quasi ad indicare che quel perseguimento della giustizia da parte dell’avvocato non può mai essere il grimaldello attraverso il quale il potere, sia esso quello statuale, sia esso quello economico, sia esso, infine, quello dell’opinione pubblica (sulla cui pericolosità rimangono ancora attuali le osservazioni svolte un secolo e mezzo fa da John Stuart Mill), impone limiti ulteriori rispetto a quelli deontologici e processuali all’attività difensiva. Il fine di giustizia, in altri termini, preso isolatamente, è facilmente manipolabile da chi può definirlo – cioè dal potere medesimo – sino a snaturare e quasi neutralizzare la primaria funzione di tutela del cittadino.
Già, il potere. Quello che in un’ottica liberale è, come lo Stato stesso, “male necessario” (Humbolt), intrinsecamente portato a corrompere chi lo esercita (Acton), in quanto naturalmente propenso ad abusarne (Montesquieu, Popper, ecc.). Un grande giurista come Hans Kelsen seppe cogliere l’essenza di tre secoli di riflessione liberale sul potere con un’immagine simbolica che rimane valida ancora oggi, a novant’anni di distanza: “La questione che occupa il diritto naturale è l’eterno problema di che cosa si celi dietro il diritto positivo. Ma chi cerca una risposta trova, temo, non la verità assoluta d’una metafisica o l’assoluta giustizia di un diritto naturale. Chi solleva il velo e non chiude gli occhi incrocerà lo sguardo fisso della testa di Gorgone del Potere”
Forse il piano simbolico, a chi scrive particolarmente congeniale, può aiutare a compiere l’ultimo, decisivo passaggio necessario a dare risposta alla domanda iniziale. E lo può fare utilizzando lo sviluppo ultimo che di questa suggestiva immagine kelseniana ha dato di recente Marco Revelli, che ha ritenuto che, nel controllo della capacità distruttiva del potere – lo sguardo pietrificante di Medusa, appunto - il diritto funga da scudo di Perseo. Il potere, così “mantiene, senza dubbio, il potenziale minaccioso della potenza distruttiva che fu, ma posta sotto controllo dal sistema di tecnologie istituzionali incentrate sul doppio gioco del Pactum e dello Jus”.
Ed in questa immagine simbolica dell’avvocato – Perseo, sorta di pendant del giudice – Ercole di Dworkin, credo sia celata l’essenza più profonda della nostra professione. Quella che, naturalmente, si disvela nei casi critici. I casi nei quali il potere, quello pubblico e quello privato, quello legittimo dello Stato o quello illegittimo dell’antistato – come nel caso di Ambrosoli citato in esergo – rivela la propria natura diabolica. A fronte del quale, sia esso l’esecutivo (es. Scuola Diaz, Cucchi), il legislativo (Eluana Englaro), il giudiziario (Tortora), o l’ormai sempre più incontrollato potere economico (Thissen Krupp, Eternit), il cittadino moderno di una altrettanto moderna democrazia liberale può ancora regredire allo stato di “nuda vita”.