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6 Settembre 2016
Una bellissima pagina dell'avvocatura italiana: il processo a Danilo Dolci
Pubblicato nel N. 6 di settembre – ottobre 2016 di “Il Foro Trentino”
IL PROCESSO A DANILO DOLCI E LO SCONTRO DELLE DUE ITALIE
<<Al centro di questa vicenda giudiziaria c’è, come la scena madre di un dramma, un dialogo tra due personaggi, ognuno dei quali ha assunto, senza accorgersene, un valore simbolico. E’, tradotto in cruda prosa di cronaca giudiziaria, il dialogo eterno tra Creonte ed Antigone. Tra Creonte che difende la cieca legalità e Antigone che obbedisce soltanto alla legge morale della coscienza, alle “leggi non scritte” che preannunciano l’avvenire.>>
Dall’arringa di Piero Calamandrei in difesa di Danilo Dolci
Quel processo fu lo scontro tra due Italie. Fu lo scontro tra un’Italia per la quale il fascismo era, come aveva scritto Gobetti all’indomani della marcia su Roma, l’autobiografia della nazione. E continuava ad esserlo dopo che erano trascorsi undici anni dalla Liberazione. Era un’Italia che, a dispetto della innovativa Costituzione che si era saputa dare nel ’48, rimaneva nel profondo ancora fascista nella mentalità e nella prassi della gran parte della sua burocrazia, della sua magistratura, della sua classe dirigente, nelle sue leggi e nei suoi codici. Fascisti rimanevano – e sorprendentemente rimangono in parte ancor oggi – il suo codice penale ed il suo Testo Unico delle Leggi di Pubblica sicurezza. Fascista era la sua scuola. Fascisti erano i rapporti sociali e familiari, ancora improntati a principi di gerarchia ed autorità. Era un’Italia moralista e perbenista quanto, in fondo, profondamente amorale; bigotta e, parafrasando Machiavelli, in quanto tale cattiva e “sanza religione”. La “cieca legalità” che essa difendeva, anche ma non solamente in quel processo, era una legalità pre -costituzionale. Non è un caso che la Corte Costituzionale, chiamata a sanare tale generalizzata cesura tra l’ordinamento giuridico ereditato dal fascismo e la nuova Legge fondamentale, avesse tenuto la sua prima udienza di lì a tre settimane, il 23 aprile di quello stesso 1956.
E dall’altra – sul banco degli imputati e su quello della difesa - c’era la nuova Italia. Quella che credeva ed anzi si identificava nei valori dell’antifascismo e della nuova Costituzione repubblicana. Quella che aveva creduto, sin dalla fase della sua redazione, che il problema politico maggiore non fosse quello di inserire nella legge fondamentale l’enunciazione di nuovi, avanzati diritti sociali ispirati ad ideali di giustizia, dignità ed uguaglianza. Bensì quello, come aveva scritto proprio Calamandrei, “di predisporre i mezzi pratici per soddisfarli e per evitare che essi rimangano come vuota formula teorica scritta sulla carta, ma non traducibile nella realtà”. Questa Italia – di cui facevano parte anche gli eretici di quelle stesse classi dirigenti, di quella stessa burocrazia, magistratura, corpo insegnate ed accademico di cui si diceva – era quella di chi aveva una autentica concezione religiosa della vita. Che si trattasse di un cattolico praticante, già appartenente all’Ordine dei Servi di Maria, come Danilo Dolci. O, al contrario, un’icona del pensiero laico, com’era il caso di Calamandrei. Sempre e comunque accomunata dall’idea della vita come missione da svolgersi al cospetto della propria coscienza, regolando le proprie azioni, per stare al pensiero di Calamandrei stesso, riecheggiando Bohnoeffer, “come se Dio ci fosse e fosse un Dio severo”.
Era questa nuova Italia certa nella risposta da dare alla domanda sottesa ad ogni distinzione e contrapposizione politica dell’età contemporanea: “Ma tu da che parte stai? Dalla parte di coloro che hanno il potere o dalla parte dei poveri cristi che non ce l’hanno?”
A questa domanda Danilo Dolci aveva risposto non con parole, ma con la sua stessa vita.
Egli era un uomo del nord. Era un borghese benestante. Un intellettuale ed un artista. Avrebbe potuto intraprendere una esistenza tranquilla e piena di soddisfazioni materiali. Ma non lo aveva fatto. Ed aveva scelto di vivere nella Sicilia profonda di quell’epoca, segnata da una miseria inimmaginabile per un paese europeo, accanto agli ultimi. La morte di fame – sì, di fame! – di una bimbetta di cinque mesi aveva segnato definitivamente la sua vita, la sua missione esistenziale. E così, quale estrema forma di resistenza civile contro il tradimento delle promesse della democrazia repubblicana, egli aveva ideato ed organizzato “lo sciopero alla rovescia”: così i disoccupati del piccolo paese di Partinico avevano aggiustato una vecchia trazzera di cui nessuno, men che meno il comune, si occupava. E siccome non avevano di che mangiare, decisero pure di digiunare pubblicamente in quel luogo. Ma, per dirla con l’arringa di Calamandrei, per l’ottusità del potere costituito digiunare in pubblico e lavorare gratuitamente per la pubblica utilità sono una manifestazione sediziosa.
E’, questa pagina bellissima dell’avvocatura italiana, una storia di sessant’anni fa. Eppure essa ha ancora molto da dirci sulla funzione sociale degli avvocati. Come “classe colta e laboriosa”. E, soprattutto, sempre e comunque, come ultimo baluardo del cittadino solo contro il potere. De te fabula narratur.